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L’adolescenza si configura come una fase della vita complessa, caratterizzata da modificazioni fisiche, psichiche e sociali  che avvengono in uno spazio temporale piccolo, trasformazioni dalle quali il soggetto viene praticamente sommerso generando uno stato di crisi. Erikson spiega che quest’età conduce ad una crisi tra identità e confusione d’ identità, in cui l’adolescente deve sviluppare il senso d’identità di se stesso, diventa un individuo con una sua propria personalità distinta da quella dei coetanei e degli adulti, con un proprio ” senso critico “, con proprie norme sociali e valori morali, forgiando quelle inclinazioni e quelle strutture mentali che l’accompagneranno per tutta la vita. Il fallimento nella costruzione della propria identità si manifesta nella “confusione dei ruoli”, per cui il giovane non riesce a trovare più un ruolo adeguato per la sua personalità nel contesto sociale.

Quindi una fase per eccellenza ambigua e mutevole, con evidenti caratteri conflittuali può condurre un senso di sé ancora larvale a risolvere questi conflitti erigendo
delle difese, che non necessariamente sono un fenomeno patologico se vengono adeguatamente assimilate e superate, altrimenti conducono a esiti del processo adolescenziale differenti, poco sani, come un’adolescenza dissociale.

Ma chi è il ragazzo dissociale?

È quel soggetto che per motivi diversi (ma sostanzialmente riconducibili ad ambienti familiari non idonei, dissociati o anche patologicamente integralisti), è rimasto ancorato alle difese maniacali, paranoidee e che idealizza solo se stesso, vedendo negli altri solo strumenti e vittime del proprio potere. In base a queste considerazioni il comportamento deviante o problematico è cosa diversa da quello più propriamente antisociale. Nel primo caso si hanno comportamenti inusuali, inattesi, bizzarri che l’adolescente può mettere in atto nel momento in cui entra in ruoli sociali che, fino a qualche tempo prima, non gli erano consueti. Manifestazioni di questo genere possono essere vissute all’interno dell’ambiente di vita dell’adolescente come vere e proprie forme di devianza e come attacco alle regole del vivere civile e possono essere la causa scatenante di successivi più gravi disadattamenti.  Le caratteristiche psico-sociali dell’adolescente dissociale riconducono a comportamenti  “ limite”, dove vige la necessità di vivere al di là delle norme, quindi con un cattivo rapporto con l’autorità e un rifiuto per le regole. L’atteggiamento svalutativo che assumono è sintomo di un’immagine di sé negativa, l’incapacità di stabilire normali rapporti sociali , le cariche aggressive dirette contro i vari componenti del nucleo familiare o contro se stessi, il disagio esistenziale, la radicale insofferenza nei confronti di sé e del mondo, spesso si rivela attraverso comportamenti auto-aggressivi, negli attacchi al corpo perpetrati tramite condotte anoressiche o bulimiche, all’integrità fisica e sociale minacciata da comportamenti a rischio, abuso di droghe e di velocità. Inoltre questo deficit dell’immagine di sé, conduce ad una scarsa capacità di fare progetti , poiché è più facile identificarsi con ciò che “non dovrebbe essere”, piuttosto che lottare per conquistare un sentimento di realtà in ruoli accettabili, ma “irraggiungibili con i suoi mezzi interiori”, conseguentemente avviene, come la chiama Erikson la “scelta di identità negativa”.

Per capire le condotte deviate di un adolescente è necessario porre in analisi il contesto familiare, e le dinamiche genitoriali che lo attraversano. Un’ educazione incoerente  e contraddittoria , condizioni educative negative e pertanto non adeguate alla necessità del soggetto in formazione generano comportamenti problematici e devianti. Per la formazione di una stabile e sana identità personale è d’importanza decisiva un clima affettivo accogliente, caloroso e appagante, che s’instaura nella relazione primaria tra madre e figlio poggiante sul reciproco riconoscimento e sulla vicendevole soddisfazione dei bisogni, mentre madri deboli, padri collerici, situazioni di abbandono o in cui si è sviluppata una scarsa empatia guidano verso un analfabetismo emotivo-affettivo contrassegnato dalla mancanza di codici con cui riconoscere e gestire emozioni ed affetti. Un attaccamento primario lacunoso, poco empatico, darà alla luce un super-io debole, che sfocerà in una condotta morale e sociale deviata. Il senso d’identità labile si manifesta inoltre con tendenze aggressive e di acting-out , la tendenza all’azione e i comportamenti aggressivi sono per il ragazzo dissociale una modalità attiva di contenimento della paura. Lo stato emotivo confusionale tipico della fase adolescenziale, ma aggravato dai sentimenti particolarmente contrastanti del ragazzo con tendenze antisociali può anche manifestarsi con crisi d’angoscia (mascherate dall’acting-out ), queste sono relative a stati di ansia e frustrazione quando ciò che desiderano è difficile da ottenere, anche eludendo le regole.

La carenza di identificazione, con i genitori, con la società, con la cultura, con i coetanei genera nell’adolescente asociale sentimenti di non appartenenza, che lo porta a vivere marginalmente nei confronti della società, scappando dalle regole e identificandosi solo con gli “oggetti cattivi” della sua relazione con la società. Vive una condizione di deresponsabilizzazione sia dal mondo esterno che dal suo mondo interno, poiché tratta il suo corpo e la sua anima con sfida perenne, cercando di capire chi è il più forte tra i due, agendo per non pensare al male che si sta infliggendo., prediligendo l’azione alla riflessione.

L’incapacità a gestire emozioni ed affetti del soggetto con condotte antisociali produce una sorta di causa ed effetto dove quasi sempre  la risposta agli input è di ordine aggressivo, ma cosa nasconde una condotta aggressiva? 

L’aggressività altro non è che una maschera della frustrazione. Dollard e collaboratori ( Miller, Doob, Mowrer, Sears), e soprattutto i vari esperimenti effettuati all’Università di Yale, hanno pienamente confermato la tesi fondamentale sull’origine dell’aggressività, così riassunta: “Un comportamento aggressivo presuppone sempre uno stato di frustrazione e, inversamente, l’esistenza di una  frustrazione   conduce sempre a qualche forma di aggressività”.

Quindi l’aggressività è una risposta alla frustrazione, e bisogna andare ad individuare la situazione frustrante non solo trattare l’aggressività che ne è l’esito.

Valeria Marchica, Resp. Serv. Psicologia ASP

Si definisce “frustrazione” la condizione in cui viene a trovarsi l’organismo quando è ostacolato, in modo permanente o temporaneo, nella soddisfazione dei propri bisogni.

L’esperienza di situazioni frustranti, molto comune nell’esistenza di ognuno, ha un valore formativo importante, perché favorisce la ricerca di soluzioni per risolvere i problemi; ma, ovviamente, un livello continuo di frustrazione può bloccare anche indefinitamente un comportamento, arrivando a produrre gravi anomalie, nello specifico del ragazzo che già ha un sistema difensivo rigido, con un deficit emotivo, con un’ immagine di sé precaria e con esperienze primarie confusionali la frustrazione non  è un’opportunità di problem solving, ma piuttosto una situazione di stress elevato da ovattare il prima possibile, l’analfabetismo emotivo-affettivo che lo caratterizza lo rende intollerante ad ulteriori carichi negativi. Il rapporto frustrazione – aggressività è legato a una serie di mediazioni riguardo a dimensioni cognitive, culturali, relazionali, interattive, punitive. In questa prospettiva del rapporto frustrazione – aggressività, frustrazione-delinquenza si collocano anche altri studi che si sono particolarmente interessati al problema della delinquenza minorile. W. I. Thomas (1923) ha evidenziato quattro desideri, quattro bisogni fondamentali dell’età evolutiva che possono essere fonti potenziali di frustrazione: il bisogno di sicurezza, di fare nuove esperienze, di avere risposta e di riconoscimento da parte degli altri, in particolar modo degli adulti. Secondo l’autore, la frustrazione di questi bisogni, quando supera certi limiti, potrebbe favorire l’ingresso in comportamenti antisociali, devianti, nei giovani in particolare.

Trattamento psicologico e rieducazione

La tendenza ad usare gli altri per rinforzare il loro potere, e la scarsa capacità di sviluppare un rapporto empatico, fanno dell’adolescente dissociale un candidato poco idoneo alla psicoterapia, che inoltre potrebbe apportare modificazioni strutturali della personalità.

Le risposte, invece, ad un processo di rieducazione che comprende la trasmissione di contenuti, norme e valori, sono state positive, poiché consentono, grazie ad un buon educatore, l’acquisizione di nuovi e sani oggetti di identificazione. Come in viaggio a ritroso, il percorso educativo percorre le tappe evolutive che sono state interrotte dagli stimoli negativi ricevuti e che hanno generato il comportamento deviato. Obiettivo primario è rafforzare l’autostima del soggetto, per poter fare dei progetti, per poter pensare ad un futuro diverso è necessario che il giovane prenda consapevolezza delle capacità che lo caratterizzano.

Dopo aver preso coscienza del proprio mondo interno, il passo successivo prevede il recupero del rapporto con il mondo adulto, composto dall’educatore, dai genitori, e da tutti coloro che prima erano solo visti come ripetitori di regole da infrangere. Rinnovare la visione del mondo adulto lo aiuterà a rafforzare il super-io debole, impoverito dalle richieste pressanti dell’Es. Ora per l’educatore sarà possibile agire sull’area dei valori, abbandonati gli schemi negativi è possibile condurre il giovane presso vie che trascendono il principio di piacere, e che invece sono caratterizzate da principi che comprendono anche il bene comune.

Un’importantissima variabile che può condizionare in positivo o in negativo l’esito del processo di riabilitazione riguarda le metodologie e le tecniche dell’educatore, e la sua posizione all’interno di questo viaggio riabilitativo. A questa figura si richiede un atteggiamento neutro, cioè non giudicante, il mittente e il destinatario dei comportamenti antisociali è sempre e comunque l’adolescente, ogni scelta ricade sempre su di lui. Il ragazzo dissociale ha assunto modelli identificatori negativi, devianti, quindi è necessario che l’educatore si proponga come  modello di identificazione, deve essere un genitore non pronto a punire,ma piuttosto ad accogliere, poiché capisce e sente propri i suoi disagi, senza però condividere gli atteggiamenti negativi. Deve essere la sua finestra sul mondo, deve aiutarlo ad allargare lo sguardo verso nuove opportunità di conoscenza.

La figura educativa è un utile compromesso, un mediatore attivo tra il mondo esterno e il mondo interno dell’adolescente con condotte difficili, poiché a differenza del contesto di appartenenza del ragazzo si propone in una condizione di accettazione del suo contenuto affettivo, anche se complesso e ingarbugliato.

Dr.ssa Valeria Marchica

Resp. Servizio Aziendale di Psicologia

Azienda Sanitaria Provinciale n.1 Agrigento 

amministratore Novembre - 2 - 2011

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