Sul piano psicologico dalla coppia la separazione è vissuta sempre, in maniera consapevole o inconscia, attraverso un sentimento di “lutto” e di perdita.
Quali che siano le cause che conducono ad una decisione così dolorosa, si tratta di dover prendere atto del fallimento di un progetto, nel quale si è investito emotivamente e materialmente.
una mancata elaborazione e interiorizzazione di questo evento e l’incapacità o il rifiuto di razionalizzarne le conseguenze, fanno sì che sempre più spesso la separazione sia vissuta in maniera conflittuale: l’esigenza primaria sembra essere, infatti, quella di addossarsi reciprocamente la “colpa”.
Altro nodo cruciale della separazione è quello legato all’aspetto giuridico: se si pensa, infatti, che essa nasce dalla conclusione di un legame affettivo, ma che nel momento in cui è sancita ufficialmente in tribunale la separazione si resta legalmente uniti dal vincolo matrimoniale ancora per altri tre (lunghi) anni, prima di giungere ad una sentenza di divorzio, si capisce quale peso psicologico si debba sopportare.
Non c’è dubbio che il problema sia culturale: una richiesta di aiuto esterno, come può essere la mediazione familiare, viene ancora oggi vissuta con disagio dai coniugi che, nella maggior parte dei casi, ritengono gli interventi di questo tipo un ulteriore motivo di sconfitta o, peggio, un doversi mettere in gioco, confrontarsi e cercare la comprensione dell’altro.
In particolare, sembra sia diffusa, nelle separazioni con figli, la tendenza, soprattutto del genitore affidatario, a “fare perno” sul figlio per far valere il proprio desiderio di rivalsa sull’altro genitore o, ancora, ad allontanarlo da quest’ultimo per la innegabile difficoltà di gestire una situazione che spesso prevede la presenza di nuovi compagni.
Accade sempre più frequentemente che il desiderio di rivalsa dei genitori si trasformi in una guerra aperta per la conquista dell’amore della prole, per poter essere “il preferito” e quindi, spesso inconsciamente, appagare il desiderio di esercitare un ruolo di forza nei confronti dell’altro.
Come vi sono pure genitori non affidatari, che scindono completamente la loro precedente condizione da quella nuova, disinteressandosi dei propri doveri, negando la propria affettività per qualcuno che sentono non appartenergli più, rinunciando in definitiva al proprio ruolo di padre/madre della prima famiglia.
In definitiva, chi subisce maggiormente le conseguenze di una scelta – che tra l’altro non gli appartiene – è, in ogni caso, colui che dovrebbe invece essere massimamente “protetto”, il bambino.
Da tutti viene generalmente ammesso che la separazione coniugale rappresenti una dolorosa e sofferta situazione nella vita dei figli e che essi trovino maggiore serenità in una famiglia stabile e non conflittuale. Fin dalla metà degli anni ‘50 si è riscontrata una elevata correlazione tra patologia psichiatrica infantile e disgregazione familiare e se ne è addossata responsabilità al cambiamento di struttura familiare ed in particolare alla assenza della figura paterna.
Venne riscontrata nei minori una gamma di reazioni tipiche in tre aree fondamentali di disadattamento:
a) disadattamento sociale (comportamenti delinquenziali ed antisociali);
b) disadattamento psico sessuale (inadeguato sviluppo ed insuccesso nell’espletamento dei ruoli sessuali);
c) disadattamento scolastico (insuccessi scolastici, blocco dei processi di apprendimento).
Il disadattamento sociale
È la reazione registrata più frequentemente, il più massiccio sintomo scatenato nei figli dalla separazione.
Il comportamento delinquenziale, antisociale, è stato, nel passato, interpretato come l’effetto manifesto di una anomalo sviluppo del super io, dipendente dalla assenza della figura paterna, cioè dalla assenza di un modello di identificazione e di un agente di disciplina e di controllo per il minore, o ancora come tentativi compiuti per sfuggire a sentimenti depressivi, causati essenzialmente dalla perdita del genitore.
(Kaiser, 1953; Gregory, 1965; Sugar, 1970, secondo quest’ultimo autore la perdita di una delle figure parentali è simile alla reazione di dolore che si prova per la morte improvvisa di una persona amata).
Disadattamento psico sessuale
Altri ricercatori hanno registrato, all’interno della popolazione psichiatrica infantile, un ulteriore effetto patologico costituito da anomalie nella sfera dello sviluppo psico sessuale. I maschi mostravano inadeguati comportamenti relativi al ruolo (Biller, 1969) e fallimenti nel processo di identificazione (Biller, Bahm, 1971). Le femmine tendevano ad assumere comportamenti decisamente inadeguati (Hetherington, 1972). Si è ritenuto che la figura paterna fosse modello indispensabile per il figlio, senza la quale difficilmente avrebbe potuto apprendere, tramite processi di identificazione, corretti comportamenti sessuali.
Disadattamento scolastico
Le energie psichiche impiegate per elaborare il lutto dovuto alla scomparsa della figura paterna andrebbero a scapito dell’investimento cognitivo (Singer, 1977; Singer e Singer, 1976), fino a veri e propri blocchi nello sviluppo cognitivo (Sutton-Smith, Rosenberg, Landy, 1968; Tuckman e Reagan, 1966).
Studi successivi (Herzog e Sudia, 1973) dimostravano la scarsa attendibilità delle tradizionali interpretazioni relative sia al disadattamento scolastico sia a quello psico sessuale. In particolare si confermò la scarsa attendibilità degli studi precedenti quando si impostarono ricerche centrate sulla comparazione di gruppi (minori provenienti da famiglie integre o da famiglie ricomposte raffrontati a minori provenienti da famiglie disgregate ed ancora minori provenienti da nuclei domestici stabili e sereni con minori provenienti da nuclei infelici e conflittuali ma non disgregati.
Ad esempio Rosemberg notava come i ragazzi con patrigni presentavano un quadro psicopatologico più grave rispetto a quelli residenti con madri non risposate.
La sola assenza del padre non spiega quindi le reazioni patologiche esercitate sui minori dalla separazione. Una prima osservazione è infatti che si dovrebbero osservare gli stessi effetti distruttivi anche in soggetti privi del padre ma non a motivo di separazione.
Nuovi orientamenti di ricerca, sgravati dalla mitologia della sindrome del padre assente permettevano di affermare che:
a) è maggiormente deleterio per il minore e la sua salute psichica vivere in una famiglia legalmente intatta, ma conflittuale, rispetto ad una famiglia separata ma sufficientemente stabile e serena.
b) Nel determinare la salute psichica del minore è fondamentale il tipo e la qualità delle interazioni che si strutturano tra i membri della famiglia a separazione avvenuta, rispetto alla separazione in sé o al precedente conflitto.
Oggi, in realtà, gli effetti patologici della disgregazione familiare vengono fatti risalire sia allo stress implicito nella situazione in sé, sia alle conseguenti modificazioni nella rete dei rapporti familiari: l’attenzione si è spostata sui modelli interattivi, relazionali, esistenti nel periodo di post separazione e sulle variabili dei processi familiari dopo la separazione stessa (qualità della comunicazione tra gli ex partners, assenza o meno di conflittualità tra loro, tipo di rapporto di ciascun genitore con il figlio, fiducia e sostegno emotivo tra i vari membri, presenza di sistemi extra familiari di supporto esterno).
È più corretto, cioè, inquadrare i termini della psicopatologia del minore, all’interno di un contesto di separazione coniugale, nei termini di variabili situazionali tra loro reciprocamente interrelate, è un concetto squisitamente relazionale.
I principali aspetti associati all’adattamento emotivo, sociale e comportamentale del bambino sono di fatto:
a) il cambiamento di struttura della famiglia,
b) la qualità delle interazioni di coppia instaurate dopo la rottura del vincolo matrimoniale,
c) la garanzia di adeguati e sufficientemente stabili rapporti tra i singoli partners ed il figlio ed il conseguente espletamento nel tempo di compiti e di ruoli genitoriali funzionali,
d) le condizioni di salute psico fisica del coniuge con la custodia,
e) il timing della separazione dei genitori nella vita del figlio, nel suo percorso evolutivo.
La riorganizzazione della struttura familiare.
La separazione è un processo che se da un lato comporta la disgregazione coniugale, implica altresì un periodo di ridefinizione dei ruoli, delle interazioni, delle funzioni familiari. Ciò che avviene è una ristrutturazione nel tempo del sistema genitori – figlio in un sistema monogenitoriale, ed il sano sviluppo psicologico dei minori dipende essenzialmente dalla riuscita di tale ristrutturazione, dall’accesso a equilibri strutturali, funzionali e interattivi.
In questo processo di adattamento il genitore con la custodia deve confrontarsi con quattro diverse funzioni o aree di riorganizzazione familiare:
- funzione economica;
- esercizio dell’autorità e la disciplina;
- espletamento delle responsabilità domestiche;
- mantenimento di stabili sostegni emotivi ed interpersonali.
Forte è la relazione esistente tra separazione coniugale e difficoltà economiche. Accade che la madre debba assicurarsi un guadagno e che ciò non si accordi facilmente con la funzione genitoriale e le responsabilità educative. Il minore può essere disturbato psicologicamente dalla assenza della figura materna.
In più occorre considerare che spesso la separazione è causa di cambiamenti di residenza, e ciò è ulteriore motivo di stress (brusco mutamento di amicizie, di insegnanti, di ambiente, ecc.)
Inoltre la perdita della figura maschile è anche perdita di un importante agente di socializzazione, di autorità e disciplina. Le madri separate possono mostrarsi impreparate ad assolvere con successo alle suddette funzioni, ad esempio perché non riescono a conciliare l’atteggiamento autoritario con quello amorevole (Glasser, Navarre, 1971).
Le caratteristiche delle relazioni familiari.
1) conflittualità di coppia e compiti genitoriali:
Già nel 1953 con gli studi di Landis, si sottolineava come i figli di coppie separate risultavano psicologicamente più equilibrati rispetto a quelli di coppie unite ma conflittuali. L’ipotesi era che i minori fossero ad alto rischio non tanto a causa della semplice assenza di un familiare ma a causa del livello di discordia e di conflitto esistente fra i genitori.
Autori come Nye (1957), Mc Cord e coll. (1962), Rutter (1971) portano alle medesime conclusioni: la separazione dei genitori non riveste di regola effetti negativi prolungati sul figlio, mentre il conflitto sì.
Studi longitudinali (Wallerstein e Kelly, 1975) attestano che l’intensità del disaccordo di coppia esistente prima della separazione non risulta correlata con il grado di patologia dei minori; piuttosto il loro disadattamento è da collegarsi al conflitto persistente dopo la separazione stessa.
Se ne conclude che la relazione tra partners separati rappresenta il fattore critico determinante della fase di riorganizzazione (Ahrons, 1981), determinando empasse nel processo di ridefinizione delle funzioni, dei compiti, delle responsabilità, ostacolo alla ristrutturazione familiare. Il più importante elemento scatenante patologia e stress nei minori è proprio l’ostilità matrimoniale che investe la sfera familiare, causando una totale impossibilità ed incapacità a mantenere costanti nel tempo quei rapporti di cooperazione tra i genitori, indispensabili per poter assolvere agli obblighi educativi e della cura dei minori. Un riuscito processo di ridefinizione genitoriale implica una netta demarcazione tra ruoli parentali e ruoli coniugali. È questo il nucleo della difficile opera di riorganizzazione familiare nella fase di post separazione che può con successo essere affrontato in un percorso di mediazione.
2) qualità delle relazioni genitore figlio.
Potenziale fattore scatenante è rappresentato dalla qualità del rapporto tra genitore e bambino. Grado e natura dei sentimenti affettivi ed emotivi caratterizzanti la loro interazione.
3) disturbi psichici dei genitori separati.
Esiste uno stretto rapporto tra status coniugale da un lato e psicopatologia dall’altro (Bloom e coll, 1978). Le persone separate o divorziate sono sovra rappresentate all’interno della popolazione psichiatrica (Crago, 1972; Radick e Johnson, 1974; Bellin e Hardt, 1958) ed inoltre contraggono con più probabilità malattie fisiche (Holmes e Masuda, 1974), hanno problemi alcool correlati (Rosenbaum, 1958: R. Woodruff e coll., 1972) e comportamenti sociopatici (J. Morrison, 1974) in misura maggiore rispetto alle persone coniugate o non sposate.
La disgregazione familiare assume un valore altamente stressante che determina problemi di ordine psico fisico in soggetti vulnerabili, ma altrimenti non disturbati.
Zilln (1978) mostra come le madri separate e psicologicamente stressate assumano comportamenti più rifiutanti, più punitivi e aggressivi e siano meno attente e premurose nei confronti dei figli. Se ne conclude che “il grado di benessere emotivo e la salute mentale del genitore con la custodia, costituiscono dei fattori di massima importanza per il sano sviluppo del figlio: se precari o carenti., essi pregiudicano le interazioni e i rapporti nella famiglia monogenitoriale, causando ulteriore stress, il quale, concorre, a sua volta, ad aggravare la già delicata situazione”.
4) Sviluppo psicologico del minore.
Si può affermare che l’età del minore ha importanti implicazioni per il modo in cui reagirà ai cambiamenti causati dalla separazione coniugale. L’età risulta correlata al grado di percezione, di comprensione, di conoscenza del bambino circa il suo mondo sociale e il suo ambiente fisico: a differenti livelli di interpretazione e di spiegazione corrispondono differenti percezioni dei fatti e degli eventi e differenti reazioni alla disgregazione familiare.
Numerose ricerche fanno riferimento al timing della separazione dei genitori nella vita del figlio, già Naubauer (1960), Landis (1960), Mc Dermott (1968), Kalter e J. Rembar (1981) affrontano la problematica temporale secondo alcune ipotesi ben precise:
- l’ipotesi del danno cumulativo: quanto minore è l’età del soggetto al momento della separazione, tanto maggiore sarà il suo squilibrio psicologico (E.M. Hetherington, 1966; M. Tooman, 1974; M. Guttentag e S. Salasin, 1978);
- l’ipotesi della fase critica: quanto più gli stressanti eventi familiari interessano lo stadio evolutivo edipico del bambino (3 – 5 anni di vita) tanto più danneggiato risulterà il suo sviluppo ( P. Naubauer, 1960; J. Mc Dermott, 1968; J. Westman, 1970);
- l’ipotesi del recesso progressivo: quanto più tempo trascorre dopo la disgregazione tanto minori risulteranno gli effetti patologici in precedenza manifestati dai figli ( R. Gardner, 1977; J. Wallerstein e J. Kelly, 1980; E.M. Hetherington, M. Cox e R. Cox, 1978).
In questa ultima, si ammette la nociva costante presenza in tutti i soggetti di disturbi limitati ad un arco di tempo relativamente breve. La separazione interferisce negativamente cioè ad ogni età ed in modi tipici per l’età nel normale processo di sviluppo psicologico del bambino. La possibilità di ripercussioni a lungo termine è funzione di altri fattori concomitanti.
Esperienze nel bambino in età prescolare
Tutti i soggetti di due tre anni di età reagiscono con massive regressioni del comportamento. Tali regressioni si manifestano nella perdita di acquisiti comportamenti di autonomia, come ad es. il ritorno all’uso del pannolino, in un insaziabile bisogno di affetto, di protezione, di richiesta di accudimento, nel ritorno ad oggetti transazionali, problemi di sonno e di alimentazione, in un ritorno a stadi di gioco anteriori, nel rifiuto, se già era cominciato dell’inserimento in scuola materna. È il quadro comportamentale simile a quello descritto da A. Freud e E. Bowlby, osservato su soggetti ospedalizzati e separati dal datore di cura. Autori francesi attribuiscono tale sindrome regressiva ad un meccanismo psicologico inconscio della madre che consiste nel riversare le ansie e le angosce connesse al processo di separazione sulle linee di attaccamento che essa intreccia col bambino suscitando in esso un sentimento di abbandono e di separazione precoce.
Altra caratteristica di questi piccoli è l’incapacità di mostrare sentimenti di gioia, spesso questi bambini si isolano con aria triste e smarrita, se ne stanno imbronciati per ore (J. Mc Dermott, 1968).
Dopo circa un anno tali comportamenti regrediscono persistendo una generale “fame di rapporti interpersonali” espressa dal troppo rapido instaurarsi di confidenza con adulti estranei ad es.
Dai tre anni e mezzo fino ai sei le reazioni assumono tratti meno regressivi e più nevrotici.
Aumento del comportamento aggressivo: affrontano il trauma con rabbia che sfogano in modo diffuso e generalizzato.
Questa età coincide inoltre col primo sviluppo del super io e trova il bambino particolarmente recettivo alle norme sociali, doveri, regole morali: per tale motivo il suo concetto di lealtà risulta gravemente scosso. Essi si ritengono sleali e cattivi, si creano una immagine negativa di sé, si giudicano con severità atteggiandosi a responsabili della separazione dei genitori. Sono convinti cioè di aver commesso un qualche crimine per il quale devono essere puniti. E se ne assumono la colpa. Possono in tal senso manifestare sintomi depressivi e inibizioni dello sviluppo psicologico.
Periodo di latenza (7 – 10 anni).
Le principali reazioni sembrano essere:
a) tristezza e dolore. A differenza dei bimbi più piccoli che negano la sofferenza e la realtà, ricorrendo a fantasie; questi bambini sono consapevoli della loro sofferenza e difficilmente trovano sollievo da essa. Alcuni la esprimono verbalmente ma i più oppongono un tenace rifiuto verbale.
b) Fantasie di riconciliazione. Nessuno a questa età appare soddisfatto o sollevato per la separazione anche in climi precedentemente caratterizzati da conflitti accentuati.
c) Collera. La rabbia in questo caso è consapevole e diretta verso un particolare oggetto. Molti sono arrabbiati con il padre, altrettanti con la madre o con entrambi..
d) Sintomi somatici. La presenza di tali sintomi è caratteristica di questo gruppo di età. I sintomi sono vari.
e) Senso di perdita.
f) Conflitti di lealtà. Molti figli sentono il peso della delusione dei loro genitori e della continua collera di uno nei confronti dell’altro. I coniugi spesso usano i minori come veicolo per esprimere ira ed offese, vengono strumentalizzati come armi. Questa rappresenta l’età ideale per essere arruolati dai genitori nelle battaglie coniugali. Un passo compiuto in direzione dell’uno viene immediatamente ridefinito come tradimento nei confronti dell’altro.
Età adolescenziale.
I cambiamenti causati nella relazione genitore figlio possono aumentare il senso di responsabilità favorendo la maturazione psicologica ed emotiva dell’adolescente, oppure sortire in una specie di diminuzione della distanza cronologica tra ragazzo e genitore, arrestandolo sulla via che dovrebbe produrre individuazione ed autonomia dalla famiglia di origine.
Accanto al fattore intelligenza ed interessi extra domestici, vi è una terza variabile che concorre a determinare una spinta verso la crescita anziché comportamenti sintomatici: la possibilità di una verifica delle proprie fantasie, idee, percezione degli eventi con adulti al di fuori della famiglia.
Soggetti scarsamente dotati o troppo invischiati emotivamente con la propria famiglia o isolati dal contesto esterno assumono reazioni tipiche:
a) Comportamenti antisociali,
b) Alternanza di depressioni interiori a fasi di aggressività,
c) Fughe da casa.
l’affidamento congiunto o condiviso
La premessa a una discussione sull’affidamento condiviso è che, fino ad oggi, il criterio della colpa ed il carattere del contenzioso trattengono i genitori nella dinamica vincente – perdente, con infauste conseguenze sull’assetto familiare conseguente alla separazione e sul funzionamento psicologico dei figli.
Si comprende altresì che, in quast’ottica, il genitore assegnatario assuma le vesti e gli allori del vincitore della contesa e si giustifica la particolare animosità con cui i separandi si battono per ottenere l’affidamento. Mutare prospettiva può servire ad attenuare le conflittualità insite in ogni procedimento di divorzio.
Le distorte dinamiche cui prima si accennava che insorgono con frequenza nelle relazioni uniparentali hanno spinto in primis il legislatore americano a delineare l’istituto della joint custody o affidamento congiunto.
I riflessi pratici immediati sono ricondotti:
a) Assunzione di eguali responsabilità nel processo educativo e nella cura dei figli;
b) Condivisione di eguali diritti nelle decisioni che riguardano direttamente i figli;
c) Necessità/possibilità che i figli vivano un concreto, stretto rapporto con entrambi i genitori alternando periodi di convivenza con l’uno e l’altro genitore.
Si tratta cioè di garantire che entrambe le figure parentali rimangano attivamente partecipi nella vita dei figli, consentendo l’uguale dire in ogni decisione che appaia di una certa importanza.
Autori affermano come vi sia una resistenza preconcetta più che razionale ad accettare l’idea che i figli possano condividere due case e due rapporti genitoriali. Non si può negare sostengono la validità di tale assetto ove si consideri il vantaggio che deriva al figlio dal poter vivere in due abitazioni accanto ad adulti che conducono una vita serena e normale (Santi, 1980). Vivendo con entrambi i genitori si crea per i figli un ambiente psicologico unico in cui sperimentano, confrontandola, l’ambivalenza di ciascun genitore.
Il riflesso immediato per i genitori sembrerebbe essere l’attenuazione dell’aspre conflittualità tra i coniugi nel momento processuale. Nessuno vince e nessuno perde.
L’affidamento congiunto alleggerisce inoltre il coniuge affidatario e attenua il senso di perdita del coniuge non affidatario.
L’assunzione di decisioni da discutere, negoziare può facilitare una maggiore distensione nei rapporti tra ex coniugi (se non scatena il contrario).
Ricerche condotte sulle prime applicazioni negli States hanno dimostrato come tale assetto permetta la diminuzione della frequenza di ulteriori risentimenti e dissapori.
I riflessi per la fratria sono evidenti: concreta inibizione delle ansie prodotte dal senso di perdita del genitore non affidatario. Il mantenuto coinvolgimento di entrambe le figure genitoriali attenua l’ansia che insorge nel sospetto di essere la causa prima della separazione. Si affievoliscono i conflitti provocati dalle crisi di lealtà che spesso costringono il bambino a scegliere, permette al figlio l’esposizione ad entrambi i modelli genitoriali, facilitando l’interiorizzazione dei due ruoli nella propria esperienza psicologica. Ostacola l’insorgere di dinamiche caratterizzate dalla presenza del “genitore buono” contrapposta alla figura più rigida del genitore affidatario. Quella che gli studiosi americani definiscono come la “The weekend Disneyland Daddy Sindrome”, in cui i figli vengono trattati come ospiti di casa di particolare riguardo, dal genitore non affidatario.
Affermano V. Cigoli, G. Gulotta, G. Santi (1997) come “i detrattori dell’affido condiviso” si rifacciano allo studio di J. Goldstein, A. Freud, A. Solnit (1973) in cui si afferma che i figli “hanno difficoltà nell’irrelarsi positivamente, nel trarre beneficio e nel mantenere contatti con due genitori psicologici che non sono in positivo rapporto tra loro”.
È chiaro che una tale posizione ignora i bisogni e i desideri sia dei figli che dell’altro coniuge: “nessun deato di nessuna scienza sociale pare confermare l’ipotesi che un solo genitore sia meglio di due”.
La difficoltà nasce nella misura in cui il bambino può essere collocato in una dinamica perversa di “doppio legame a tre”, in cui messaggi di eguale forza ma mutuamente escludentisi giungano dai due genitori contemporaneamente sul bambino. L’effetto pragmatico sarà che qualsiasi risposta comportamentale sarà sbagliata a priori: nel doppio legame non è possibile la scelta, l’unica scelta possibile è il fallimento della scelta stessa. Esperienze della applicazione di tale legislazione sembrerebbero indicare che tali dinamiche patologiche e i conseguenti effetti comportamentali dirompenti appartengano quasi esclusivamente all’iniziale periodo di adattamento per scomparire gradualmente proprio in virtù del prolungato legame con entrambe le figure parentali. Altri rischi sono connessi all’insorgenza di sindromi competitive tra i genitori in cui assumono comportamenti, non proprio finalizzati al benessere del figlio, ma tenuti in chiara funzione antagonista e volti a provocare il confronto con l’altro. Poco rilievo assume, sempre secondo tali autori, l’assunto secondo cui “se due persone non sono andate d’accordo durante il matrimonio saranno particolarmente incapaci di gestire un rapporto paritario e costruttivo per l’educazione e la crescita del minore”; è chiaro che non vi è identità di ruolo tra la funzione genitoriale e quella coniugale e che l’incapacità a sostenerne una non implica necessariamente l’inidoneità alla seconda.
Dr.Giannunzio Gatto
Neuropsichiatra Infantile
Azienda Saniraria Provinciale Agrigento